Palazzo Monteverde, Palermo, Sicilia, 1823
La notte calava su Palermo come un velo di seta nera, trapunto di stelle che sembravano scrutare i vicoli tortuosi e i tetti di tegole rosse. Isabella di Monteverde, avvolta in un mantello scuro che celava il suo abito di seta color avorio, scivolò silenziosa fuori dalla finestra della sua camera al secondo piano del palazzo di famiglia. Il cuore le martellava nel petto, non per il timore di essere scoperta—quello sarebbe stato un rischio calcolato—ma per l’eccitazione di ciò che avrebbe potuto trovare oltre le mura opprimenti della sua vita privilegiata.
Il palazzo Monteverde si ergeva imponente nel cuore della città, un simbolo di potere e ricchezza che dominava il quartiere con la sua facciata di pietra scolpita e le finestre ad arco ornate di vetri colorati. Per Isabella, però, era una gabbia dorata. Suo padre, Don Carlo di Monteverde, un uomo dal volto austero e dagli occhi freddi come il marmo delle sue statue, governava la casa con una severità che soffocava ogni traccia di libertà. Le sue giornate erano un susseguirsi di lezioni di ricamo, ricevimenti noiosi e ordini impartiti con voce tagliente. Ma quella notte, Isabella non pensava a lui. I sussurri dei servi l’avevano raggiunta come un richiamo irresistibile: parlavano dei Beati Paoli, una setta misteriosa di uomini mascherati che si diceva proteggessero i deboli e punissero i tiranni. Una favola, forse, ma il suo spirito indomito la spingeva a scoprirlo con i propri occhi.
Camminava rapida per i vicoli stretti, i tacchi delle sue scarpe di pelle morbida che ticchettavano appena sul selciato umido. L’aria era densa dell’odore del mare, portato dal vento che spirava dal porto, misto al profumo dolce dei gelsomini che si arrampicavano sui muri screpolati. Ogni passo la allontanava dalla prigione del palazzo e la avvicinava a qualcosa di ignoto, qualcosa che le faceva scorrere il sangue più veloce nelle vene. Fu allora che lo vide.
Un uomo mascherato si stagliava nell’ombra di un angolo, alto e snello, il mantello nero che gli cadeva sulle spalle come ali di un corvo. Davanti a lui, due guardie borboniche—con le loro uniformi sgargianti e le sciabole al fianco—stavano trascinando un contadino. L’uomo, magro e con le mani legate da una corda ruvida, gemeva piano, implorando pietà con una voce spezzata. Le guardie lo ignoravano, ridendo tra loro come se fosse un gioco.
“Lasciatelo andare,” ordinò l’uomo mascherato. La sua voce era profonda, ferma, un comando che tagliava l’aria come una lama. Le guardie si voltarono, sorprese, e poi scoppiarono a ridere più forte.
“E chi saresti tu, un attore di teatro?” lo schernì il più alto dei due, un uomo dal naso aquilino e dai baffi curati. Ma il suo divertimento durò poco. Con un movimento rapido, quasi impercettibile, l’uomo mascherato estrasse una spada sottile dal fodero nascosto sotto il mantello. La lama brillò sotto la luce fioca di una lanterna appesa a un muro, e in un istante disarmò il soldato, facendogli cadere la sciabola con un clangore metallico sul selciato. Il secondo soldato, un tipo tozzo con il volto arrossato, cercò di reagire, ma un calcio preciso al ginocchio lo fece crollare a terra con un grido di dolore.
Il contadino, liberato con un taglio netto della corda, non perse tempo. Mormorò un “Grazie, signore,” tremante, e corse via, sparendo nell’oscurità dei vicoli. Isabella, nascosta nell’ombra di un portone a pochi passi di distanza, trattenne il fiato. Non aveva mai visto nulla di simile: un uomo che sfidava le guardie borboniche con tale audacia, come se la legge stessa gli dovesse obbedienza. Il cuore le batteva così forte che temeva potesse tradirla, ma non riusciva a distogliere lo sguardo.
Poi, gli occhi dell’uomo mascherato si posarono su di lei. Sotto la maschera nera che gli copriva metà del viso, due iridi scure scintillavano come carboni ardenti nella penombra. Un sorriso appena accennato gli curvò le labbra, un’espressione che era al tempo stesso enigmatica e divertita. Isabella si sentì improvvisamente esposta, come se quel semplice sguardo avesse trapassato il suo mantello e visto la verità nascosta sotto la seta e il velluto.
“Non è un posto per una dama, questo,” disse lui, la voce ora più morbida, quasi scherzosa, ma con una nota di cautela. Isabella si raddrizzò, rifiutando di lasciarsi intimorire. Aveva passato troppo tempo a chinare il capo sotto lo sguardo di suo padre; non avrebbe ceduto ora.
“E chi dice che io sia una dama?” ribatté, alzando il mento con un’aria di sfida. Era una risposta sfacciata, degna di una donna che non si piegava alle convenzioni, e lui rise—una risata breve, ma calda, che le fece tremare qualcosa dentro.
“Una dama o una ribelle, non importa,” disse, inclinando leggermente la testa. “Torna a casa prima che la notte ti inghiotta.” Poi, con un ultimo sguardo che le scaldò il viso nonostante il fresco della sera, si voltò e scomparve tra i vicoli, il mantello che fluttuava dietro di lui come un’ombra viva.
Isabella rimase immobile per un lungo momento, il cuore in tumulto. Chi era quell’uomo? E perché, nonostante l’oscurità e il pericolo, sentiva che il loro incontro era solo l’inizio di qualcosa di inevitabile? Tornò al palazzo con passi incerti, scalando il rampicante che le aveva permesso la fuga, il profumo dei gelsomini che ancora le aderiva al mantello. Una volta nella sua stanza, si lasciò cadere sul letto, ma il sonno non arrivò. La sua mente era piena di lui: la maschera, la spada, quel sorriso che sembrava promettere segreti. Si rigirò tra le lenzuola, il respiro corto, incapace di scacciare l’immagine di quegli occhi scuri.
Fuori, la città dormiva, ignara del fatto che quella notte aveva segnato il primo passo di Isabella verso un destino che non poteva ancora immaginare. La finestra rimase socchiusa, lasciando entrare il canto dei grilli e il fruscio delle foglie mosse dal vento. Mentre chiudeva gli occhi, un pensiero le attraversò la mente, chiaro come le stelle sopra Palermo: doveva rivederlo. Non sapeva come, né quando, ma lo avrebbe fatto. E con quel pensiero, finalmente, si abbandonò a un sonno inquieto, sognando maschere e spade sotto un cielo senza fine.